La "deportazione" italiana in Belgio nel dopoguerra
GLI "SCHIAVI" DI DE GASPERI

- 24 quintali di carbone all'anno all’Italia per ogni minatore italiano che scendeva nel fondo delle miniere (-900/1100 m) dove nessun voleva più andare -

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/scoppia-una-miniera-di-carbone-a-marcinelle/541/default.aspx

Questa l'intesa preliminare dell’autunno ‘45 del governo Parri (poi De Gasperi I° dal 10/12/1945-De Gasperi VIII 28 luglio 1953) con quello belga che ci riservava, nel successivo accordo firmato da De Gasperi il 23 giugno ‘46, la consegna di 50.000 italiani in cambio di 120.000 tonn di carbone per l'industria. Il primo contingente necessario per questo scambio uomini-carbone, fu quasi interamente messo insieme dal Veneto (nel solo territorio vicentino 23.000 persone) e dall’Emilia. Da Marcinelle a Charleroi arrivò allora il carbone del "boom" italiano. Macchine che fecero altre macchine che arricchivano gli industriali che fecero gli elettrodomestici bianchi per gli operai che erano diventati più ricchi. Fu "deportazione"? Jacques van Solinge "Le Soir" del 17 giugno 1996: "Questa la genesi di ciò che rimarrà senza dubbio come una delle più importanti deportazioni del nostro secolo in tempo di pace" (superata solo in numero dagli spostamenti etnici postbellici dell’est pantedesco).

Queste le buone baracche di ondulato americano, ex campi militari usa E così si esprimono Anna Morelli e Bruno Ducoli direttore del Centro di azione sociale italiano dell'Università operaia su "La Libre Belgique" del 25 giugno 1996: "Gli Italiani non sono venuti in Belgio per costruirvi l'Europa o per raccogliere la sfida della battaglia del carbone. Il sistema feudale onnipresente nelle campagne italiane del Sud (con la sua miseria inaudita e le sue umilianti oppressioni) ha costretto centinaia di migliaia di contadini e di piccoli artigiani ad accettare tale deportazione. Essi non avevano altra scelta. E siccome parliamo di "deportazione" lo facciamo soppesando le parole e ben sapendo che deportazione vuol dire "esilio forzato in un luogo determinato. Ducoli -L'immigrazione italiana in Belgio è stata un'immigrazione non accompagnata e abbandonata troppo a lungo alle sue magre risorse intellettuali e finanziarie. Oggi, si tenta di occultare questa pagina tragica, questo giustifica il modo in cui l'Italia accoglie i suoi immigrati”.
 

L'emigrazione verso il Belgio, contingentata e regolamentata, non fu una libera scelta, come le migrazioni in generale non lo sono mai state, né ieri né oggi. Fu la mancanza di lavoro, e quindi la fame, la miseria più nera, la ricerca di un futuro migliore per i figli a spingere migliaia di disperati nelle viscere della terra. L'impreparazione a un lavoro inumano, insalubre e pericoloso, la mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro, la sistemazione in alloggi spesso fatiscenti (ex baracche dell’esercito Usa vedi sopra o quelle in legno tipiche degli ex lager ancora piene di pidocchi), non potevano che suscitare rabbia, delusione e sconforto in quei contadini provenienti anche dalle miserabili campagne del Sud e della Padania. C’erano molti che dopo un giorno uscivano disperati e rompevano un contratto che non si poteva rompere, pena il Petit Chateau. Nel carcere del Petit-Chateau le condizioni di vita erano difficili, si moriva di fame e quindi erano in molti ad arrendersi e a tornare a lavorare. Non c’erano solo italiani in miniera: c’erano anche i prigionieri di guerra tedeschi mandati giù a saldare i danni di guerra dal piccolo Regno neutrale violato per la seconda volta nel giro di 25 anni. Si può parlare di espulsione? di una vera e propria esportazione forzata di braccia e di intelligenze?. Deportazione richiama alla mente altre vicende come i criminali britannici in Australia tra il 1788 e il 1864, gli ebrei (ma qui il fine non era il lavoro bensì l’eliminazione e quindi il parallelo non regge, come le migrazioni etniche, politiche) i coloni di Libia di fascista memoria. Ma qui è meglio non fare confronti De Gasperi era il paladino della libertà (o il Sancho Panza della democrazia). Accordo tecnico economico sulla pelle di altri, così lo chiamavano nei palazzi romani, povera gente che più tardi scoprì cosa c’era dietro, con lo stillicidio degli incidenti mortali e la catastrofe di Marcinelle solo per cominciare. Nessuna sicurezza e nessuna garanzia se non quella assicurata poi dalle leggi belghe “d'allora” (Il 30/4/1948 un nuovo protocollo italo-belga estendeva anche ai nostri lavoratori il regime di assicurazione sociale previsto nel paese). Nessun riconoscimento se non tardivo degli analoghi istituti del lavoro italiani. La legge regalò 7 anni al partigiano e molti di più al portaborse politico, ma nessuno al minatore. Non ce n’era bisogno sarebbero morti tutti anzitempo di silicosi e i morti non protestano, non fanno ricorso.

da Rai educational... Il Primo Ministro belga Van Hacker, alla fine del conflitto lanciò la “battaglia del carbone”, riuscì quindi a promuovere una convenzione con De Gasperi (con il benestare di Togliatti e Nenni), e il 23 giugno del 1946 venne firmato l’accordo che prevedeva l’acquisto di carbone a fronte dell’impegno italiano di mandare (almeno) 50. 000 uomini da utilizzare nel lavoro di miniera. E così tra il ‘46 e il ‘57 arrivarono in Belgio 140mila uomini, 17mila donne e 29mila bambini (a parte un periodo di flessione negli anni '49-'50, il movimento migratorio continua raggiungendo la punta più elevata nel 1961, quando gli italiani rappresentano il 44,2 per cento della popolazione straniera in Belgio, a quota 200.000 unità (I bambini nell'80% dei casi nascevano là). “I musi neri”, com’erano chiamati i minatori a causa della polvere di carbone che ricopriva i loro corpi, venivano avviati a un lavoro pericoloso, privi di ogni preparazione e alloggiati in strutture fatiscenti. Trattati come bestie, erano costretti a lavorare in cunicoli alti appena 50 cm. Firmato l’accordo “uomo-carbone”, nei comuni italiani iniziarono a comparire dei manifesti che informavano della possibilità di questo lavoro e in cui c’era scritto che un franco belga (moneta) equivaleva a 12 lire italiane. Ma per quanto riguarda le mansioni effettive, diceva molto poco. Secondo l’accordo tutti i minatori in partenza dovevano confluire a Milano dove i medici avrebbero fatto dei controlli di tipo militare. Molti provenivano dalla Calabria alla ricerca di una vita migliore. Il viaggio in treno verso il Belgio durava tre giorni e tre notti. Non c’erano vagoni degni di tale nome, ne' servizi igienici. Dopo lo shock degli alloggi (e del viaggio) venne lo shock della miniera. Molti non immaginavano neppure cosa li aspettasse: passarono dalla luce bianca dei riflessi della neve, al nero più intenso delle viscere della terra. Alcuni piansero, ma molti si vergognarono di tornare a casa. Non era facile la vita lassù, anche perchè i problemi continuavano anche dopo il lavoro. Gli operai italiani, infatti, non venivano visti bene dalla popolazione belga e venivano chiamati “fascisti”, “sporchi maccaroni” (li salvò Bartali stendendo tutti i loro campioni del ciclismo).

30 nov. 2008 - Papa Benedetto XVI ha reso oggi omaggio ad Alcide De Gasperi ''guida saggia ed equilibrata per l'Italia negli anni difficili del dopo-guerra e insigne statista capace di guardare all'Europa con una visione cristiana''. !!!!

Da un articolo di Epoca del novembre  1953 (tre anni prima di Marcinelles) firmato da Massimo Mauri passi ...Fu'  l’onorevole De Gasperi -allora Presidente del Consiglio- ad affermare tempo addietro a un nostro connazionale residente a Bruxelles: «L’emigrazione è una battaglia da vincere; come in ogni battaglia, ci sono morti, ci sono feriti “. (Era lui che, secondo la famosa denuncia Guareschii, diceva agli americani  come bombardare Roma nel 1944)

Di questo passo (e ammesso che sia necessario combatterla) questa è una battaglia che rischiamo seriamente di perdere: i morti e i feriti sono già troppi. Il 13 gennaio di quest’anno 18 minatori, 11 dei quali italiani, morivano bruciati dal grisù a Cockerill-Frameries (questa la goccia che ci convinse a ritornare nell'estate); il 27 settembre altri 12 uomini, di cui 7 italiani, perdevano la vita precipitando in un pozzo con l’ascensore dell’Hainaut; infine il 25 ottobre altri 26 minatori, tra cui 14 connazionali, morivano asfissiati, la bocca piena di ossido di carbonio, nella miniera di 0ugrée-Marihaye, nel bacino di Liegi. È stato a questo punto che la gente in Italia si è allarmata, titoli neri sono apparsi sui giornali, qualcuno si è alzato sui banchi dell’opposizione, il Governo ha spedito a Bruxelles l’onorevole Dominedò e i giornalisti sono arrivati sul posto per trovare una risposta alla angosciosa domanda: «Perché nelle miniere belghe muoiono tanti uomini?. In realtà ne muoiono troppi. Nel periodo dal settembre 1949 al 25 ottobre di quest’anno sono avvenute nelle miniere belghe 15 grandi catastrofi; In esse hanno perso la vita 155 uomini, tra i quali 47 connazionali. Ma non è tutto. A queste sciagure collettive va aggiunto lo stillicidio, più tremendo anche se meno appariscente, di quelle individuali: ogni settimana per incidenti vari un uomo muore nelle miniere belghe. Nel 1953, 16 italiani sono morti in questo modo che non fa chiasso, che non richiama giornalisti, che non allarma o commuove l’opinione pubblica e le autorità. Sedici uomini: una cifra superiore a quella delle vittime nell’ultima sciagura di Ougrée-Marihaye.

Queste a fianco non sono le baracche ma le case. Sullo sfondo il terril della miniera per le scorie

Vi sono in Belgio 61 miniere: Quasi tutte sono molto vecchie: tra 25- 30 anni verranno a scadenza le concessioni e i proprietari si guardano bene dall’intraprendere lavori di ammodernamento le cui spese non riuscirebbero più ad ammortizzare. Inoltre le vene carbonifere non sono quasi mai orizzontali, come nel Limburgo olandese, ma fortemente ondulate, talché la profondità media è al disotto degli 800 metri, con punte - nella zona del Borinage - fino a 1400 metri; e a tale profondità la temperatura si aggira sui 45°. Infine, più di un sesto delle miniere sono di 3° categoria (una miniera viene classificata di 1°, 2° o 3° categoria a seconda della minore o maggiore percentuale di grisù e quindi estremamente pericolose. Niente di strano, dunque, se il controllo governativo sulle miniere, effettuato attraverso i tecnici e gli ingegneri dell’Administration des mines, sia difficilissimo addirittura impossibile, poi, quello tentato da enti e autorità italiane. Lo stesso «Regolamento di sicurezza» belga è un testo antiquato, buono forse 50 anni fa: l’uso della dinamite all’imbocco delle «taglie », per esempio. è di uso corrente nelle miniere belghe, che sono le più grisoutées del mondo; in Italia, nel bacino del Sulcis, i motori elettrici sono proibiti: qui in Belgio sono dovunque ammessi. La meccanizzazione nelle miniere solleva il minatore da lavori penosi, ma accresce fortemente il pericolo di catastrofi se non è sottoposta alle più rigorose misure di sicurezza. La sciagura di Monceau-Fontaine del 17 giugno 1952, in cui persero la vita 12 minatori fra cui 7 italiani, fu provocata da una scintilla sprigionata da una macchina a vapore difettosa. In simili casi basta la presenza in un angolo di una trascurabile quantità di grisù perché avvenga l’esplosione.
D’altro lato, bisogna ammettere che la manodopera è sempre meno qualificata. Quindici, vent’anni fa la percentuale dei minatori stranieri in Belgio era del 16 per cento: oggi essa raggiunge, al fondo, il 60 %, di cui ben il 54 è costituito da italiani. I belgi non vogliono più saperne di lavorare in miniera, cercano lavori più puliti, meno rischiosi, anche se hanno dietro di sé due, tre generazioni di minatori (e d’esperienza). Ma i 50 mila italiani, che lavorano oggi al fondo nelle miniere belghe, sono nuovi alla professione: non solo non sono minatori, ma non appartengono neppure a famiglie di minatori. Dopo pochi giorni vengono fatti scendere al fondo e dopo pochi mesi si improvvisano battitori di carbone. Ciò costituisce un grosso rischio, perché uno dei pilastri su cui poggia la sicurezza in miniera è l’istinto del minatore. Questo istinto è un dono che si acquista con gli anni, non si improvvisa. L’operaio nuovo non è sempre persuaso della gravità del pericolo sul quale viene attirata la sua attenzione durante il breve corso teorico che precede la sua discesa al fondo; ed è soltanto al fondo, del resto, che si compie la vera formazione professionale. Esempio: levarsi l’elmetto perché fa caldo: il vecchio minatore non lo farà mai, non perché sia proibito, ma perché ormai non gli passa neppure per la mente di farlo: istinto e autodisciplina sono diventati in lui una sola cosa. Trent’anni fa, prima di scendere i minatori venivano meticolosamente perquisiti in cerca di tabacco e di fiammiferi. Oggi, per evidenti ragioni sociali e di dignità umana, simile procedimento non è più in uso; e ciò quando la coscienza e l’istinto professionali dei minatori, anziché migliorare, sono peggiorati.

Bisogna dare per scontato questo semplice fatto: che l’italiano viene a lavorare nelle miniere belghe con un solo pensiero: quello di far quattrini nel più breve tempo possibile per tornarsene al paese e comprarsi un ettaro di terreno e una casetta. Con questa meta davanti agli occhi, si accetta tutto: la discesa al fondo impreparati, il. lavoro nelle peggiori condizioni, l’inesistenza delle misure di sicurezza, il rischio quotidiano per il pane quotidiano. Se uno ha coraggio e buona resistenza riesce a guadagnare duemila lire al giorno come manovale, dalle tre alle quattro mila come battitore, cioè produttore di carbone. Per tale cifra si è disposti a sopportare tutto, a rischiare tutto. La impreparazione professionale e la “sete” di guadagno sono aggravati da un terzo non meno pericoloso fattore: l’instabilità della manodopera. È impossibile che un minatore conosca a fondo la propria miniera prima di un certo numero di anni. ...Innanzitutto non si capisce perché, di fronte a questi inconvenienti, non si applichino più rigorose misure di sicurezza, controlli più frequenti e severi; la prima, più efficace sorveglianza è quella fatta dai tecnici della miniera; l’Àdministration des mines (38 ingegneri alle prese con un migliaio di cantieri) può fare ben poco, visitare non più di un cantiere ogni quindici giorni !!. E invece, guarda caso, tra le vittime di OugréeMarihaye nella catastrofe del 25 ottobre, cera anche un tecnico della miniera. Da due giorni il cavallo cieco addetto al trasporto rifiutava di avvicinarsi alla bocca della «taglia » e le famiglie dei topi si mostravano irrequiete. Ciò rivelava la presenza di grisù, anche se in minima quantità. Eppure il lavoro è continuato, il tecnico sorvegliante non ha dato alcun allarme. Finché, forse da una lampada difettosa, è scaturita la scintilla che ha acceso la piccola nube di grisù pulviscolare. Non poteva essere molto il grisù, giacché la fiammata ha bruciato soltanto tre o quattro uomini: i più vicini all’esplosione; altri quattro o cinque sono rimasti schiacciati dalla frana, mentre il resto - la più parte - sono morti asfissiati quando la fiammata ha succhiato tutto l’ossigeno della galleria: non esisteva traccia di bruciature sui cadaveri, solo i polmoni erano pieni di ossido di carbonio. In secondo luogo, per indurre esseri umani a stabilizzarsi, a chiamar la famiglia, occorre offrir loro condizioni umane di vita e di lavoro. Per un terzo dei 50 mila minatori italiani il problema degli alloggi non è ancora risolto, vivono in baracche (ex campi di concentramento) gelide l’inverno, infuocate d’estate. Talvolta, è vero, le case ci sono; e sono essi che rifiutano di lasciar le baracche, per non pagare troppo d’affitto (400 franchi al mese per 4 stanze) È lo stesso fenomeno per cui molti rifiutano di iscriversi ai sindacati belgi: per non pagare i 62 franchi di quota mensile.(nota del sito: noi subaffittammo una stanza con servizio cucina. I 62 Franchi saranno quelli che nel tempo ai disgraziati o ai superstiti riuscirà a procurare un pezzo di pensione. Ho smesso di pagarla per mio padre anche se defunto  5 anni fa nel 2003, Non credo ora ci siano più superstiti) È sete di guadagno, mania di risparmio all’osso dopo anni e anni, forse generazioni, di miseria e di disoccupazione. Chi lavora a contatto con la morte, non ha che un pensiero: metter da parte quanto basti per cambiar al più presto lavoro, città, paese, vita.

Buoni soldati
Un notevole passo innanzi si è fatto quando l’Ambasciata (e non Roma, come potrebbe sembrare dalle dichiarazioni fatte alla Camera dall’onorevole Del Bo) ha ottenuto la costituzione di una Commissione di controllo mista italo-belga, presieduta da un rappresentante della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio, perché svolga un’inchiesta sulle condizioni di lavoro e sulle misure di sicurezza nelle miniere belghe e decida eventualmente la chiusura di quelle più pericolose. In Belgio, la primavera prossima vi saranno le elezioni generali. Inoltre, di fronte a un eventuale esodo in massa degli italiani, le miniere belghe entrerebbero immediatamente in crisi. Queste due ragioni hanno spinto il Governo belga a ingoiare il rospo della Commissione mista. È un precedente importante: per la prima volta la Comunità Carbone e Acciaio interverrà a favore della classe lavoratrice; e si spera che anche per gli alloggi si ponga rimedio. Se si mandano 50 mila italiani sul fronte belga a combattere la battaglia dell’emigrazione, bisogna pure fornirli di equipaggiamento, di munizionamento; altrimenti non è più una battaglia, è un macello. Si tratta di buoni soldati, seri, onesti, che si adattano a tutto: su 50 mila italiani c’è stato finora un solo delitto, nessun furto, nessun caso di ubriachezza. Non una sola grana per la nostra Ambasciata. Ma a Liegi nascono due italiani al giorno, si sposano 4 coppie di italiani alla settimana; e nella zona di Mons vi è un solo agente consolare per 20 mila connazionali. In tutti i Consolati il personale è rimasto come prima della guerra, gli impiegati lavorano dieci ore al giorno; il console di Charleroi non può muoversi, andare in giro per le miniere, visitare per esempio i 60 italiani che in media ogni giorno sono presenti all’ospedale di Charleroi. E per finire, le scuole. Non esistono scuole italiane, ma soltanto doposcuola (e la nostra collettività in Belgio raggiunge ormai le 150 mila unità).
L’Ambasciata ha ottenuto dal Governo belga l’uso delle aule scolastiche per questi doposcuola, dove insegnano gratuitamente missionari e frati inviati dal Vaticano, e qualche moglie di minatore che ha il diploma di maestra (da Roma per l’istruzione di questi 150 mila connazionali non arrivano che 600 mila lire all’anno). Da tempo, mesi e mesi, è stato chiesto un maestro per poter coordinare, dirigere, organizzare questi frati e queste mogli di minatori: un semplice maestro elementare, non un direttore didattico, non un professore universitario, non un provveditore agli studi. Certo, bisogna dargli anche da vivere a costui; e per vivere qui in Belgio, occorrono almeno 12 mila franchi al mese, 150 mila lire (una cifra enorme quando in Italia un muratore all’epoca non prendeva più di 50.000 lire al mese. Ma finora nessun maestro è arrivato. Con che cosa bisogna vincerla, dunque, questa battaglia dell’Emigrazione come dice De Gasperi ? Con i soli morti non si vincerà mai. Massimo Mauri

Baracche
Non erano questi i primi che arrivavano qui: Il giornale “La Nation belge”, il 29 settembre 1922, riporta la fotografia di un gruppo di 235 italiani giunti alla stazione Gare Du Midì di Bruxelles. Erano arrivati da Verona nella speranza di lavorare nelle miniere di Charleroi ma erano rimasti bloccati a Bruxelles perché non avevano mezzi per proseguire il loro viaggio fino al «Paese Nero» (Il borinage). Spesso infatti i migranti venivano letteralmente “spogliati” alla partenza da qualche truffatore che pretendeva di facilitare il loro viaggio con il rilascio del visto o degli indirizzi utili per ottenere un lavoro in Belgio. Il Nunzio Apostolico nel 1922 giudicava così la loro situazione: «Essi giungono qui in uno stato che fa veramente pietà. [...] nel viaggio spesso sono derubati, e giungono qui senza sapere né dove andare né a chi rivolgersi e senza potersi far comprendere. Spesso passano lunghe ore nelle stazioni, guardati con pietà e alle volte anche con un certo sdegno dai passanti»
I minatori belgi fino ad allora erano infatti legati alla loro buca (tunnel) come i coltivatori alla gleba. Il posto si trasmetteva di padre in figlio: di nonno in nipote no perchè non c’era sufficiente aspettativa di vita. Nel periodo tra le due guerre questa mentalità però cambia. Volendo risparmiare ai propri figli una vita di sofferenza e miseria, i padri fanno un discorso diverso: i loro figli faranno qualsiasi cosa tranne che “prendere la strada della fossa”. Sono avvantaggiati in questo dal calo demografico che vede famiglie con solo uno o due figli e la possibilità per uno almeno di studiare e dal fatto che negli ultimi anni di guerra a lavorare nella fossa ci sono andati prima i prigionieri dei tedeschi poi i tedeschi stessi. Ma anche i prigionieri prima o poi tornano casa. Per convincere le persone ad andare a lavorare in miniera in Belgio, l'Italia (ma non solo) viene tappezzata di manifesti di colore rosa che presentano unicamente i vantaggi derivanti dal mestiere di minatore: salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato !!! morte garantita.  Effettuato in un primo tempo dagli uffici di collocamento locali, il reclutamento passa in seguito nelle mani della Fédération charbonnière de Belgique, desiderosa di “aggiustare il tiro”. Il patronato minerario installa un ufficio di reclutamento nel sotterraneo della stazione centrale di Milano. Gli operai dovevano essere sotto i 35 anni e in buono stato di salute. Nel frattempo, la Súreté belga esamina l'elenco delle persone prescelte. I suoi agenti eliminano indesiderabili, delinquenti o agitatori politici, i cui passaporti vengono ritrasmessi al Ministero del lavoro. Nell'accordo era stato previsto un corso di formazione (a destino) e la garanzia di un alloggio, ma non la clausola di recesso. Nell'impossibilità di alloggiare le decine di migliaia di minatori italiani, nonché le loro famiglie, le compagnie decisero di acquistare i vecchi campi di prigionia, costruiti durante e dopo la guerra (anche le famose baracche americane semicilindriche in lamiera ondulata foto in alto). Questi accampamenti erano in cattivo stato di conservazione (per costruzione), generalmente situate in posti insalubri. Esistevano scappatoie a questa situazione da campo di concentramento: alloggiare alla cantina (locande controllate dalle società carbonifere) se eri scapolo (pagando). Col tempo poi verranno semplici fabbricati in pietra la cui vivibilità era garantita d'inverno solo dal potente riscaldamento a carbone che la miniera passava a prezzo politico, e verranno col tempo le scuole, gli asili, l'assistenza sanitaria e ospedaliera che in uno stato che si definiva socialista non si poteva ignorare. Giorno dopo giorno si era raggiunta una vivibilità che in Italia comunque era ancora lontana in molti posti: ma tutto questo faceva stridente contrasto con le condizioni di lavoro che peggioravano man mano che il petrolio subentrava al carbone in una concorrenza possibile solo per i prezzi bassi praticati. Non si faceva più manutenzione e l'intera struttura sotterranea andava ad esaurimento tecnico fino a che non succedeva il disastro.
L'Italia ha espulso dalla sua memoria storica quella tragedia nazionale che fu l'emigrazione verso il Belgio... ed oggi riserva ai lavoratori immigrati lo stesso percorso ad ostacoli che è stato riservato agli italiani 50 anni fa" ? Ha pagato l'Italia il suo debito verso questi soldati ? No. Come non lo potè fare Mussolini non lo fece la nuova Italia che poteva e che entrambi avevano spinto avanti. 
I morti non protestano, i morti non fanno ricorso.
 

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